LA CASA GIALLA

Ricordi della mia infanzia

Sono nella casa in cui abitavo da bambina.
È una grande casa di campagna giallo-sbiadito, di quelle case fatte a forma di casa, come quelle che disegnano i bambini.
È un posto magico, l’unico in cui riesco a ritrovare la versione originale di me stessa, a provare delle sensazioni che non ho mai più riprovato in vita mia.
Entrare qui, varcare la soglia del cancello è come fermare il tempo, come aprire la porta per entrare in un posto familiare sì, ma trent’anni prima.
È tutto immobile e sono immersa in una luce diversa da quella cui sono abituata solitamente. L’aria che respiro è calda qui, anche se è inverno.
Appena metto piede fuori dall’auto, ho la sensazione di calpestare i passi d’altri, di chi non c’è più. Questa sensazione svanisce man mano che mi convinco di sentire il martello che batte sulla lama della falce che mio nonno sta affilando.
Riesco a vedermi, a cinque anni, mentre cerco nella terra della vigna dei tesori nascosti. Quelli non li ho mai trovati in quel posto, però dietro al fienile c’era il recinto con le galline e lì, se cercavo bene, riuscivo a trovare dei veri tesori: cocci di ceramica, pezzi di lampade… me lo chiedo in effetti perché alle galline fosse stata destinata una casa più simile ad una discarica che altro.
A ben pensarci, nella terra della vigna una volta una cosa l’ho trovata: lo scheletro di un gatto!
Quando un gatto moriva a casa mia, mio nonno lo seppelliva e non certo in segno di rispetto, quanto perché sosteneva che i resti erano utili per concimare la terra.
La scoperta è stata per me sconvolgente e sono scappata via piangendo da mio nonno che, come era solito dire, mi ha risposo: “Plànsitu par un gàt? Se uòtu ch’al sei’!” (Piangi per un gatto? Cosa vuoi che sia!). Il nonno aveva fatto la guerra, aveva visto morire tante persone e dei gatti e della loro sorte non importava di certo!
Entrando in cucina, trovo tutto come è sempre stato: mio nonno che ascolta la radio con i gomiti appoggiati alle ginocchia, le mani incrociate mentre gira le dite e l’orecchio a dieci centimetri dall’apparecchio, il suo cappello grigio sulla sedia, il giornale sul tavolo, mia nonna che lavora all’uncinetto con il vestito a fiori azzurri che mi saluta dicendo: “Sòtu tu bièla? Sentiti chì” (Sei tu bella? Siediti qui).
In sala c’è una foto che sembra irreale: ci sono i miei genitori poco più che trentenni, mia sorella sdentata a sette anni e io a tre mesi di vita, sotto un albero di cachi.
Al piano superiore, collegato da una scala troppo grande e buia, dalla quale quando sei piccola non riesci a vedere fino in cima, ci sono le camere: nella mia c’è la carta da parati colorata, la moquette azzurra, i diari e le foto. Sento ancora viva la paura del buio che avevo da bambina, quando sentivo i topi nel granaio spostare le pannocchie, e la sensazione che provavo le notti in cui correvo in camera dei nonni:  la loro presenza arginava e dissolveva ogni paura…

Rimango qui ancora un po’, avvolta dal silenzio, lo stesso che spesso avvolgeva le mie giornate quando ero bambina.